CREARE LAVORO
O
CREARE PROFITTO ?
Indice
1
– Come creare lavoro ? … … … … … … … … …
… … … … … … … … pag .2
2
- I freni all’iniziativa privata … … … … … … … … … … … … … … … pag. 5
3
- Lo stimolo all’imprenditoria … … … …
… … … … … … … … … … …
pag. 7
4
- Come abbattere la disoccupazione
giovanile … … … … … … … … … …
pag. 8
5
- La democrazia nei Sindacati dei
lavoratori … … … … … … … … … … .. pag. 9
6
– Le astensioni dal lavoro che arrecano disagi agli utenti … … … … … … … pag.10
7
- Uno Statuto dell’azienda al posto
dello Statuto dei lavoratori … … … … …. pag.11
Sommario
Creare lavoro è un tema
di estrema importanza per l’epoca in cui viviamo, caratterizzata da rapide
evoluzioni della tecnologia e della cultura, che si sono estese a larghi
assetti sociali, evoluzioni che vedono entrare in gioco popolazioni che alcuni
decenni fa non partecipavano alle attività produttive basate sulle tecnologie
di origine occidentale.
Creare lavoro è tuttavia
un’espressione impropria , poiché il lavoro è la conseguenza dell’iniziativa
imprenditoriale quando si colgono le opportunità economiche
che possano essere soddisfatte
nella prospettiva di un profitto,
che rigeneri il capitale impiegato.
Il creare lavoro è quindi un
obiettivo subordinato a quello del creare profitto.
.
Roma, Novembre 2012
1 – Come creare lavoro?
Una delle
ricorrenti invocazioni degli esponenti di partito e dei sindacati è quella del lavoro.
Queste
invocazioni rimangono però tutte sul generico, nessuno infatti azzarda qualche
ipotesi sul come creare lavoro, per
ovviare alla disoccupazione presente e futura. E si dice futura non per malaugurio ma perché
sarà da prevedere che la disoccupazione
resterà un tema di lungo periodo a causa di fattori, non eliminabili in tempo
reale, quali:
-
la disarmonia tra le qualifiche necessarie agli
imprenditori e quelle sfornate da scuole ed università;
-
il fenomeno della delocalizzazione delle attività produttive italiane in paesi
che offrono costi minori di manodopera e di materie prime;
-
il prevalere nei giovani di una cultura di secondo
livello causata da ridotte attitudini all’ apprendimento, per atavica
indolenza, fattore che ostacola la
imperativa necessità di qualificazione e riqualificazione,connessa all’evoluzione
tecnologica e sociale;
-
la sostanziale ignoranza dell’inglese, lingua ormai
universale, largamente utilizzata in tutto il mondo per i traffici commerciali
e turistici.
Ma come si
crea nuovo lavoro? Costruendo nuovi stabilimenti ad opera delle grandi imprese?
Ne abbiamo
già costruiti numerosi, molti però dopo
pochi anni sono stati definitivamente chiusi, alcuni di questi sono stati chiamati
cattedrali nel deserto, nel
deserto cioè delle infrastrutture, particolarmente
nel Mezzogiorno.
Come quello che viene per primo in mente e cioè lo
stabilimento per estrarre proteine dal
petrolio, eretto a Saline Ioniche in provincia di Reggio Calabria, mai avviato
ad opera compiuta, essendo intanto emersa un’alta probabilità di cancerogenesi
a carico del progettato prodotto, che doveva esser destinato all’alimentazione
proteica del bestiame. Ostacolo decisivo che però è affiorato troppo tardivamente,
a valle di uno spreco di capitali senza ritorno ed a danno di iniziative economiche più oculate, in un’area
a scarsa presenza di iniziative imprenditoriali. Senno di poi?
Sugli
investimenti sostenuti dai contributi statali, alcuni studiosi hanno avanzato
il sospetto che, se si escludono possibili
perplessità sulle capacità professionali dei soggetti beneficiari delle
agevolazioni, non è peregrino il dubbio
che alcuni dei nuovi impianti siano
sorti con il preciso scopo di finanziare
indirettamente attività già in essere in luoghi tradizionali,operanti però
in territori più centrali rispetto ai
mercati europei.
Altri ritengono
invece di trovare conferma nel convincimento che la produzione industriale nei
territori meridionali soffre del tallone di Achille di non disporre di un mercato locale sufficiente per assorbire le
produzioni , fattore che rende costoso – per carenza di adeguate infrastrutture
- il raggiungimento di mercati più
lontani e segnatamente le aree più centrali europee, compromettendone la competitività . E’ sintomatico in tal
senso l’abbandono FIAT dello stabilimento siciliano di Termini Imerese,
esplicitamente dichiarato antieconomico nel quadro della competizione mondiale
nella produzione di automobili di larga serie.
Ma questo non
vuol dire che il mezzogiorno d’Italia
debba essere condannato all’arretratezza. Se non è competitivo per produzioni
di massa delle automobili, lo sarà invece per mille altri prodotti dove l’economia di scala non sia così
importante. Occorre però fantasia.
Come quella di quel siciliano che - avendo osservato che in tanti agrumeti i
proprietari non trovano più convenienza
a raccogliere arance e limoni, lasciandoli
marcire sulla pianta od a terra - ha organizzato la raccolta,il trasporto ed il
piazzamento diretto degli agrumi sui mercati della Lombardia, saltando tutte le
intermediazioni.
A parte questa nota di colore, molto ancora si potrebbe fare con una politica di governo per le
infrastrutture che avvicini le industrie del sud ai mercati del nord: dai
treni navetta superveloci , alle cosiddette autostrade del mare, ancora di non
semplice utilizzo, ai trasporti aerei ( se le pere arrivano fin qui dal Cile e
l’uva dal Sud Africa, non potrebbero atterrare a Berlino le arance di Ribera e
l’uva di Vittoria?).
.
Molti esponenti
politici chiedono investimenti per dare lavoro ai giovani. Ma chi dovrebbe provvedere? Si presume che debba
essere lo Stato. La gigantesca mole del debito pubblico che rasenta i 2.000
miliardi di euro non consente però grandi piani d’investimento.
Tuttavia essi
dovrebbero essere concepiti non per dare lavoro, come scopo primario, ma spinti
dall’urgenza di creare miglioramenti
nelle infrastrutture che diano un ritorno dell’investimento, stimolando
l’imprenditoria:
a - ritorno del tipo diretto,ad
esempio tramite pedaggi o tariffe se trattasi di ferrovie ed autostrade, tra
queste per inciso vien da pensare alla
indifferibile necessità di una
variante sull’autostrada SA-RC nel tratto Lagonegro-Falerna, con nuovo
percorso lungo la costa tirrenica, che
sia alternativo al tracciato di montagna, conseguendo l’effetto di avvicinare
sensibilmente il profondo Sud, mediante:
-
l’accorciamento del percorso di circa 35 km ;
-
l’aumento della velocità media commerciale;
-
la riduzione dei disagi
per neve, puntualmente ricorrenti ogni anno nel tratto montagnoso.
b- del tipo indiretto, ammissibile ad esempio, sul piano della prevenzione
idro-geologica, procedendo per gradi sui luoghi più esposti al dissesto (ad
esempio: briglie sui torrenti, ed altre opere di contenimento per evitare od attenuare
i disastri delle alluvioni ed i relativi rovinosi costi di ripristino).
L’elevata
entità del debito pubblico non dovrebbe essere tuttavia un alibi per
l’immobilismo:in altri termini, se siamo riusciti a raggiungere in circa quindici
anni oltre 1900 miliardi di euro nell’ammontare del debito pubblico, nulla
impedisce di aumentare con un preciso disegno tale livello per erogare gli
importi indifferibili a soddisfare i debiti contratti con le imprese creditrici
- un fiume di denaro, sicuro stimolo all’economia - nonché gli importi
necessari a completare opere incompiute che diano effettiva utilità, e quelli
per iniziative sociali che abbiano comunque un ritorno economico.
Non è
accettabile infatti il ricorrente ritornello: non ci sono i soldi, che
si sente pronunciare in miriadi di casi di malfunzionamento di apparati
pubblici. Finora i soldi ci sono stati per
promuovere innumerevoli opere lasciate incompiute, un gigantesco dispendio
di risorse pubbliche nella più completa impunità, resa possibile dall’ assenza di controlli.
Non esiste un meccanismo, un ministero , una authority
che sia titolare dei controlli della spesa pubblica, al di là della pregevole
opera di denuncia esercitata dalla Corte
dei Conti, che purtroppo però dà l’impressione all’uomo della strada, con i
suoi resoconti annuali, di costituire una vox
clamans in deserto, non disponendo
di poteri coercitivi.
Esiste però, per completare il quadro, almeno un caso in
cui l’imbastire delle attività
produttive con lo scopo primario di dare
lavoro è un obbligo preciso a carico dello Stato: quello cioè di alleviare le condizioni di vita dei
detenuti e di praticare concretamente l’opera del loro recupero.
A pensarci
bene anche questo aspetto richiede investimenti che alla lunga hanno un loro
ritorno,seppure indiretto, quello cioè di reintegrare nella società civile
soggetti umani recuperati.
In definitiva
il contributo dello Stato, per
alleviare decisamente la disoccupazione,
è limitato, e non si può contare nemmeno sull’iniziativa delle grandi imprese,parte
delle quali è intenta a formulare progetti di delocalizzazione, come emerge
dalle cronache quotidiane.
La risposta a
questo problema dei problemi dipende e dipenderà sempre dall’iniziativa
imprenditoriale privata, rispetto alla quale lo Stato è chiamato a fare quella
che è la sua parte, e cioè assicurare un
clima generale favorevole, meglio ancora un clima di ottimismo, garantito dall’effettivo esercizio delle
libertà costituzionali.
Lo Stato
dovrebbe da parte sua verificare se esistono le condizioni per scoraggiare le
delocalizzazioni all’estero delle imprese, causa imponente di disoccupazione,
ed applicarle con decisione. Se invece si dovesse riconoscere che la
delocalizzazione è inarrestabile, è preferibile che si ammetta con franchezza che
ci aspetta un destino di crescente disoccupazione e dilagante povertà, a fronte
di un crescente benessere dei paesi emergenti, fenomeno di livellamento facilmente
comprensibile con la fisica dei vasi comunicanti.
Si potrebbe
ad esempio partire da casi concreti, come potrebbe essere uno studio
approfondito sulle vere cause che ostacolano in Sicilia le produzioni di massa
delle automobili, come emerge dall’abbandono FIAT. Studio le cui conclusioni
dovrebbero poi essere adeguatamente pubblicizzate dai media, per la carica
d’insegnamento che possiede una
esperienza negativa di tale dimensione.
Si potrebbe
però anche studiare come mai la
LUXOTTICA di Belluno non ha delocalizzato la sua produzione
di occhiali, raggiungendo con i dipendenti un accordo che ne ha garantito la
stabilità.
Una piaga, quella
della delocalizzazione, del resto universale per i paesi industrializzati, una
soluzione obbligata dalla concorrenza internazionale: i giapponesi infatti producono in
Sud-Corea e nel Vietnam, gli svedesi in
Cina ed in Malesia ,i finlandesi in Cina ed in Marocco,gli italiani in Cina,in
Serbia,in Albania ed in Romania, i greci in Bulgaria e così via.
Solo che noi
abbiamo qualche motivo in più degli altri per produrre all’estero: si dovrebbe
in proposito consultare Marchionne, deus ex machina della FIAT, che conosce
bene le condizioni di lavoro per produrre in differenti paesi lo stesso
prodotto e cioè automobili: sia in Italia, che anche in Polonia,in Serbia,in
Brasile.
In un regime
di libero scambio con paesi nei quali i salari netti mensili ordinari di un
operaio sono in euro di circa : 150 (Serbia),200 (Albania), 70 (Cina), come
possiamo noi confrontarci con salari minimi netti di 1.000-1.200 euro mensili?
Non resta che
rinunciare alle produzioni ad alto contenuto di manodopera, dove altri paesi
sono invincibili, perché i diritti dei lavoratori vi sono praticamente
inesistenti, per puntare su produzioni specializzate il cui contenuto di
manodopera sia già basso - o
sensibilmente riducibile mediante investimenti mirati - e ciò al fine di
rendere poco significativa l’incidenza del lavoro e quindi poco interessante la
delocalizzazione. E’ un obiettivo che – sia chiaro – non risolve che in parte i
problemi occupazionali e che non si raggiunge né in un giorno né in un anno,ma intanto può valere come una delle direttive
da perseguire con convinzione.
Ci sostiene
anche la speranza che nel tempo il livellamento mondiale nelle condizioni di
vita ristabilisca un certo equilibrio nelle possibilità di occupazione.
S’intende dire che i lavoratori dei paesi più arretrati, già manifestano rivendicazioni di
migliori condizioni di lavoro e di
trattamento economico, segnatamente in Cina. Un incipiente fenomeno che porterà
ad una crescita dei costi locali di produzione, che uniti a maggiori costi nei
trasporti - sia per l’incessante aumento del prezzo del petrolio che per le più
costose coperture assicurative - attenueranno la convenienza delle
delocalizzazioni. Già ora alcune aziende USA hanno ripreso in casa lavorazioni
piazzate all’estero, anche per la decisiva influenza di un più agevole
controllo di qualità sulle produzioni.
Si può
osservare, per consolarci, che esiste anche una imprenditoria straniera già presente in Italia con successo in molti
settori produttivi. Ma è anche da rilevare che, confrontando tra loro i vari
paesi europei, l’Italia è tra gli ultimi come tasso di concentrazione di
iniziative industriali straniere
Sarebbe
importante capire che cosa scoraggia gli imprenditori stranieri, per tentare di
porvi rimedio.
2 - I freni all’iniziativa privata
La sensazione
che raccoglie l’uomo della strada che legge i giornali ed ascolta la tv è che la
diffusa insipienza ed impreparazione della burocrazia, leggi sul lavoro a senso
unico, e lo strapotere di partiti e sindacati, costituiscano una pesante
pastoia per l’imprenditoria e per il
paese in generale, una montagna di ostacoli che richiederà almeno una
generazione da educare all’affidabilità, per essere spianata.
Tiene il
campo, come deterrente per l’investitore straniero, anche il famoso articolo 18
della legge 300/1970 sui diritti dei lavoratori. Articolo che funge da vero e
proprio spaventa passeri: perché se da
un lato non ha una incidenza significativa nei rapporti di lavoro - per essere
applicabile solo per le unità produttive con più di 15 dipendenti, che
costituiscono circa il 5% del totale, e per essere in effetti applicato in
misura non significativa – dall’ altro lato però questo articolo possiede un forte carattere simbolico, capace di esercitare
una influenza negativa sui potenziali investitori.
Va spiegato
infatti che il campo di intervento del magistrato è ristretto all’ipotesi che
si verifichi un licenziamento ingiustificato . Detto articolo consente al
giudice di annullare il licenziamento ed
imporre all’imprenditore il reintegro
del lavoratore al suo posto di lavoro, anziché imporre una penale con
l’applicazione di un prefissato indennizzo
di legge. Questo reintegro forzato del lavoratore ripudiato suona come una
prevaricazione,come una violazione del diritto di proprietà e della libertà
imprenditoriale - garantita dalla Costituzione all’art.41- ed infine non solo compromette
il prestigio interno dell’imprenditore, ma suona anche come offesa allo spirito
di collaborazione degli altri lavoratori.
La recente
vicenda dei tre operai dello stabilimento FIAT di Melfi che, reintegrati dalla
Corte d’Appello di Potenza, restano dall’azienda bloccati all’esterno pur
percependo il rispettivo salario, è un indice evidente dello stato di malessere
provocato da un provvedimento disciplinare interno, grave ma ritenuto
assolutamente giustificato dalla gerarchia interna, e che viene invece vanificato
dalla magistratura perché considerato ingiustificato, alla luce di testimonianze
forse non sufficientemente protette da intimidazioni ambientali, come sembra
emergere da inchieste giornalistiche non superficiali.
Per definire poi
cosa si possa intendere come esempio di giusta
causa soccorre la lettura dell’art.28 della stessa legge 300 (repressione
della condotta antisindacale): Qualora il
datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà e della attività sindacale . . ., si mette in essere un comportamento classificabile come condotta
antisindacale, suscettibile di repressione.
Non essendo
definite le circostanze di tempo e di luogo per dare corpo a tale previsione di reato, può ipotizzarsi che
un intervento di tal genere da parte del datore di lavoro avvenga su di un lavoratore, che fosse trovato impegnato in
attività sindacale durante l’orario di lavoro. Un richiamo al dovere,
contestato al lavoratore, è da ritenere legittimo se si trasformasse -
nell’ipotesi di recidiva - in licenziamento per giusta causa, ma potrebbe invece
essere interpretato dal magistrato come illegittimo alla luce della legge 300/70.
Comunque, è
tale l’incidenza negativa dell’art.18 all’occhio
degli imprenditori, da indurne alcuni a
frazionare l’attività imprenditoriale in più unità produttive, ognuna con maestranze che non superino i 15 addetti, per evitare l’applicabilità dell’art.18.
L’eliminazione
di questo controverso articolo 18, applicato
poi in modo discutibilmente disuniforme e cioè solo alla minoranza di unità
produttive aventi un organico superiore alle 15 unità, toglierebbe uno degli
ostacoli alla libertà dell’iniziativa
privata, particolarmente sentita dagli investitori di provenienza estera, e non
potrebbe avere che benefici effetti sull’incremento dell’occupazione.
Altro freno
all’iniziativa privata è l’obbligo di assumere invalidi nella misura del 15%
degli occupati in azienda, con lo stesso trattamento economico degli altri
lavoratori, senza riguardo alla loro capacità professionale ed alla eventuale
minore produttività.
Nella
motivazione della sentenza 2958/1975 la Cassazione si esprime in
proposito nei seguenti termini:
Col far gravare su una speciale categoria
l’attuazione di scopi di carattere protettivo se non proprio genericamente
assistenziale, cui, per l’art.38 della Costituzione, dovrebbe provvedere lo
Stato attraverso organi ed istituti da lui predisposti ed integrati, la legge
482/1968 incide e limita quella libertà
d’iniziativa economica che la stessa Costituzione all’art.41 ha voluto
garantire al privato, libertà che si
esprime innanzitutto nella
possibilità di liberamente scegliere e contrattare secondo certe leggi
economiche che è superfluo precisare.
La
limitazione della libertà imprenditoriale, in essere ormai da decenni, è stata
oggetto di incisiva considerazione anche da parte di una personalità importante
ed influente: infatti alla riunione dei partiti comunisti dell’Europa
occidentale,tenutasi a Bruxelles nella primavera del lontano 1977,circa 35 anni
fa, l’attuale Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano esprimeva concetti e constatazioni aventi
validità del tutto attuale:
“Il
meccanismo di sviluppo economico che aveva efficacemente funzionato tra gli
anni ’50 e ’60 è entrato in crisi profonda. Non abbiamo motivo di nascondere il
fatto che a provocare questa crisi hanno contribuito –insieme con cause esterne
ed insieme con gli errori e le degenerazioni dei governi dominati dalla DC –
anche le grandi lotte dei lavoratori.. . .
Un ritmo intenso di aumento dei salari,un
ulteriore miglioramento del meccanismo di scala mobile, nuove garanzie di
conservazione del salario e del posto di lavoro in caso di crisi aziendali,. .
. .,la combattività e l’unità dei lavoratori, . . . ,hanno ridotto la libertà
di decisione e le possibilità di manovra delle imprese, specie per quanto riguarda
la mobilità della manodopera e licenziamenti, ed hanno fortemente inciso sui
margini di profitto.
Questi successi hanno contribuito a mettere
in crisi il vecchio meccanismo di sviluppo, . . . E’ così diminuito fortemente
l’autofinanziamento ed è cresciuto l’indebitamento delle maggiori imprese, anche a causa dell’incidenza molto alta dei
contributi per la sicurezza sociale.
Nello stesso tempo, il costo del denaro è
molto aumentato e le possibilità di credito per le imprese sono state limitate
dall’esigenza dello Stato di assorbire il risparmio per coprire il deficit del
settore pubblico”.
Concludeva il
futuro Presidente che a suo parere, per combattere la crisi (di allora), “ è necessario spostare le risorse dai
consumi agli investimenti” (come dire: dalla retribuzione del lavoro alla retribuzione del capitale,
cioè generando profitti che poi sono la
materia prima per gli investimenti) ed inoltre: “ stabilire un giusto rapporto tra la crescita dei salari e sviluppo degli investimenti”
(come dire: migliorare la condizione dei lavoratori ma in proporzione agli
aumenti di produttività consentiti dagli investimenti).
3 - Lo stimolo all’imprenditoria
Nel momento
in cui si avvia un’attività imprenditoriale sono ben presenti nell’attore
avveduto i rischi che corre,nel quadro nelle
previsioni, vagliate le quali si dà corso a decisioni quali sono
l’acquisizione di terreni, di impianti, di materie prime, etc. Il punto di
partenza in concreto è costituito da
elementi immateriali, quali. idee, fantasie,supposizioni, incertezze,
speranze, stati d’animo, elementi cioè labili ed impalpabili, capaci però di produrre decisioni irreversibili.
Tali elementi
immateriali sono fortemente
influenzabili da altri elementi immateriali quali possono essere il clima generale
ed il regolare funzionamento delle
istituzioni democratiche.
Certamente
nessuno,nemmeno lo Stato, può suggerire all’imprenditore quale mestiere
esercitare, scelta che resta una sua insindacabile prerogativa, che dipende
dalle personali attitudini,venendo a costituire il simbolo e la sostanza della
sua autonomia.
Le
agevolazioni per incoraggiare gli imprenditori non possono comunque
fermarsi a quelle fiscali,quali ad
esempio la detassazione sugli utili
reinvestiti..
Si dovrebbe
andare oltre, nell’offrire da parte delle istituzioni dello Stato:
n
la collaborazione convinta di una burocrazia
statale, preparata e volenterosa, che riduca
all’essenziale gli adempimenti
amministrativi, ma che eserciti poi i necessari controlli;
n
il regolare funzionamento della giustizia - che soccorra tempestivamente l’imprenditore
alle prese con i debitori insolventi, che ne mettono a rischio la sopravvivenza;
n
le
infrastrutture che agevolino gli scambi
e guidino l’impresa nell’individuare i canali per l’esportazione;
n
la protezione da concorrenze sleali, da
qualunque parte provengano;
n
la protezione dalla malavita parassitaria;
n
la garanzia – tramite l’assiduità dei controlli -
del rispetto delle leggi.
Stato dal
quale ci si attende in definitiva il comportamento del socio
premuroso e vigile per la vita dell’impresa, sia come soggetto percettore delle entrate
fiscali, sia come soggetto garante dell’ordinata convivenza civile, sia infine come
soggetto erogatore delle indennità di disoccupazione nei cicli economici sfavorevoli.
Stato che finora
purtroppo mentre è implacabile persecutore dei debitori del fisco (da non
confondere con gli evasori),si comporta da insolvente nei confronti dei suoi
creditori, con il pretestuoso motivo della mancanza di fondi, che vengono però
reperiti per l’erogazione puntuale dei
compensi alla casta ed ai dipendenti pubblici, la cui assiduità sul posto di
lavoro raramente viene controllata da una gerarchia interna deresponsabilizzata, mentre
si lascia alla libera iniziativa di guardia di finanza, carabinieri e
televisioni private la caccia agli assenteisti.
.
Manca in
effetti attualmente quel clima costruttivo - che favorisca le larghe intese,
più volte auspicate dal Presidente della Repubblica - tra categorie sociali che al contrario tra di
loro si comportano come sostanze immiscibili, come lo sono l’olio e l’acqua.
Ad esempio:
-
La categoria degli artigiani non trova larghe intese
con la categoria dei giovani,molti dei quali hanno in odio i lavori stagionali
ed in generale quelli dove teoria e manualità sono strettamente connesse,
giovani di cui attualmente si lamenta una disoccupazione del 30 %.
-
La classe dirigente – accomunata con i parlamentari
nella definizione di casta – prima
di governare il Paese governa sé stessa, con lauti trattamenti economici
inidonei a suscitare larghe intese, ma
piuttosto meglio idonei a suscitare largo rancore in una larghissima
maggioranza.
-
I sindacati dei lavoratori dipendenti non trovano
larghe intese con gli imprenditori, annebbiati, come sono, da residue ideologie
vetero-comuniste,in base alle quali il padrone è un negriero da combattere con
ogni mezzo e da sfruttare oltre il possibile.
E’ da dire tuttavia che in ciò sono a volte fuorviati da comportamenti
arroganti di non pochi datori di lavoro i quali considerano l’azienda una loro
esclusiva proprietà, come fosse un terreno, una villa od una barca, non
considerando a sufficienza che il valore dell’ azienda - intorno a cui si
trovano a disputare le controparti - non è fisso, ma è legato alle fortune delle
attività economiche dell’azienda stessa, cioè alla sua creatività e competitività,alla
sua capacità di innovazione e di diversificazione, realizzandosi nel caso
opposto l’azzeramento dell’investimento .Ne fa fede la recente dismissione del
complesso FIAT di Termini Imerese, moderno e costato miliardi, ma abbandonato,
perché considerato non più competitivo, e ceduto , così si legge - per un solo euro - alla società DR
Motors, interessata al subentro. Ad
ulteriore conferma del valore precario degli impianti di produzione, è noto che
nell’erogazione dei prestiti alle industrie le Banche si garantiscono non con
l’ipoteca su tali impianti, ma con il
fondo di garanzia fidi presso l’ Unione degli Industriali della Provincia, od
in mancanza ipotecando gli immobili di proprietà personale dell’imprenditore.
4 -
Come abbattere la disoccupazione
giovanile
E’ comune constatazione che la scarsa competitività italiana - dovuta a svariati fattori già
accennati - provoca la delocalizzazione delle attività produttive non solo per
i prodotti destinati al consumo interno, ma soprattutto per i prodotti
destinati ai mercati esteri che potrebbero essere ugualmente prodotti in
Italia, se risultassimo competitivi.
Ciò premesso,
l’auspicabile incremento del tasso di occupazione non potrà essere tale da
assorbire i due milioni di disoccupati, se non in molti anni di robusta
crescita del PIL, il che appare allo stato attuale ancora impensabile.
Prima ancora che nella conquista di una
maggiore competitività, che rimane comunque un obiettivo ineludibile, il
problema dell’occupazione dei giovani, deve trovare immediata soluzione – a
parere di chi scrive – nella riduzione dell’orario di lavoro degli occupati,
per passare ai giovani una quota del lavoro non delocalizzato, giovani che alla fin fine non sono che i nostri figli,
almeno sul piano statistico.
Agli inizi
del ‘900 l’orario di lavoro negli opifici era di 14 ore al giorno. La tecnologia era agli albori e le innovazioni
erano frequenti ed aprivano per i consumatori nuovi orizzonti per migliorare la
qualità della vita quotidiana.
Nel tempo
l’orario di lavoro si è progressivamente
ridotto sia per i progressi della
tecnologia applicata ai metodi di produzione, comportante riduzione di manodopera, e sia per la progressiva saturazione dei beni di consumo.
L’orario di lavoro standard si è ridotto,
nell’arco di un secolo, alle 8 ore attuali, in alcuni settori anche meno.
Se fosse ulteriormente
ridotto l’orario di lavoro, poniamo a 6 ore, si potrebbe, in
teoria e sul piano statistico, assorbire i circa 2,3 milioni di disoccupati,
che costituiscono circa il 10% dei 23 milioni di occupati.. Sempre in teoria la corrispondente
riduzione della retribuzione sarebbe il prezzo da pagare per attenuare il
disagio giovanile, in concreto per dare ai figli più elevate opportunità di occupazione,
mentre il tempo libero sottratto ai giovani si trasferirebbe ai loro genitori,
beneficiando gli uni e gli altri di un modo più proficuo di caratterizzare la
propria vita.
Tale
impostazione lascerebbe naturalmente libero
il ricorso al lavoro supplementare ove ciò fosse necessario per compensare sia carenze
di qualifiche specializzate che punte di attività produttiva.
5 – La
democrazia nei Sindacati dei lavoratori
In Italia
il rapporto tra l’imprenditore ed il sindacato – che rappresenta
l’intermediario indispensabile per le trattative e per gli accordi che ne derivano – è complicato dal fatto che
i sindacati assumono colorazioni politiche e si appoggiano a determinati
partiti, formandone quel braccio
secolare che i partiti stessi
utilizzano per le manifestazioni
di carattere politico, al di là di
quelle giustificate dai contrasti con l’imprenditore.
Il rapporto
tra il sindacato ed il lavoratore rappresentato non è basato a ben vedere su
criteri democratici, come si tenta di spiegare qui appresso.
Prendiamo il
caso di un lavoratore, che ogni mattina esce di casa e va a sacrificare gran
parte della giornata per guadagnare il
necessario al mantenimento proprio e della propria famiglia. Mentre fa
colazione sente dichiarare alla TV che è
indetto uno sciopero generale contro, poniamo, la riforma delle Università, e
conseguentemente questo lavoratore deve astenersi dal lavoro, rinunciando ad un
giorno di salario e danneggiando la
propria famiglia, nonché l’incolpevole datore di lavoro per il mancato utilizzo degli impianti di
produzione.
Si tratta
come è evidente di una imposizione illegittima a danno di migliaia di
lavoratori da parte di un segretario o di una oligarchia sindacale, che non hanno alcuna investitura democratica od impensabili
procure per esercitare improvvise imposizioni di tal genere.
E’ vero che,
di norma, nessuno impedisce al lavoratore di presentarsi al lavoro, nonostante
lo sciopero: ma il ben intenzionato non sempre ha sufficiente coraggio per
superare il clima di intimidazione che si instaura nella gran parte dei casi, e
di inghiottire l’appellativo di crumiro col quale verrà additato al disprezzo
dei colleghi, a volte con conseguenze peggiori.
Chiaramente lo sciopero è un diritto dei
lavoratori, garantito dalla Costituzione, per mantenere un certo equilibrio di
forze nel rapporto con l’imprenditore. Dunque se il rapporto con l’imprenditore
diviene conflittuale per motivi economici, al dipendente è riconosciuto il diritto
collettivo di astenersi dalla collaborazione, fino alla composizione della
vertenza,diritto che viene esercitato da un organo rappresentativo quale il
Consiglio di fabbrica od il Sindacato locale, organi questi che però dovrebbero
essere legittimati di volta in volta dai lavoratori stessi ad indire le
astensioni dal lavoro, tramite consultazioni referendarie con voto segreto, al fine di garantire
l’effettiva libertà individuale di decidere per l’adesione o meno alla proposta
forma di agitazione.
In questo
quadro il meccanismo è tale che i
lavoratori scioperanti mentre danneggiano sé stessi con l’astensione dal lavoro, del pari danneggiano l’imprenditore per il mancato
utilizzo dei mezzi di produzione, e quindi si verifica un grossolano equilibrio nel sacrificio
reciproco.
In un mercato
aperto alla concorrenza, il consumatore - che non trova sul mercato il prodotto
a causa dello sciopero - è libero di acquistare un prodotto simile dalla
concorrenza e quindi non soffre del pericolo della rarefazione o addirittura
della completa carenza.
Lo sciopero
quindi assume l’aspetto di un elemento
di disturbo della vita aziendale, ma senza che abbia riflessi di alcun tipo
all’esterno dell’azienda.
Se per fare
un esempio si trattasse di una fabbrica di birra, lo sciopero non avrebbe
riflessi negativi sull’attività dei bar e delle birrerie, che potrebbero
prevenire tali imprevisti con la molteplicità delle fonti di
approvvigionamento.
6 – Le astensioni dal lavoro che creano
disagi agli utenti.
Se invece si
fosse in regime di monopolio e cioè si trattasse in ipotesi dell’esistenza di
un unico stabilimento per la produzione della birra, il consumatore dovrebbe rinunciare al
prodotto, venendo ad incidere, la mancanza della birra sul mercato, sulla sua libertà di consumatore, costretto
all’astinenza.
In altri
termini colpendo l’incolpevole utente, con la limitazione della sua libertà, lo
sciopero, in una attività che sia in condizioni di monopolio, snatura il
diritto concesso al lavoratore di sospendere la collaborazione con
l’imprenditore in caso di vertenza
economica, perché tale diritto trascende nella prevaricazione.
Tale
influenza negativa sull’utente si verifica anche quando – sempre nell’esempio
ipotetico della birra – lo sciopero interessasse contemporaneamente tutte le
aziende produttrici di birra in una rivendicazione di categoria.
In una
democrazia che sia gelosa della libertà di tutti i suoi membri, nessuno
escluso, certe forme di agitazione limitative della libertà dell’utente o del
consumatore andrebbero scoraggiate come
inammissibile tentativo di prevaricazione,e ciò al fine di rendere garantito a
tutti, e senza interruzioni, il godimento del diritto al libero comportamento.
Quanto detto ha valore generale e quindi riguarda
anche e soprattutto gli scioperi dei dipendenti pubblici, la cui funzione dovrebbe essere quella di garantire con
continuità il cemento della società civile, modernamente organizzata e con alto
grado di interdipendenza.
Tipico in
questo senso è lo sciopero dei trasporti pubblici, treni, autobus e
metropolitane che operano com’è noto in condizioni di monopolio. L’utente ne è
pesantemente colpito, addirittura in maggior
misura dell’azienda che - essendo per lo più in perenne passivo, poi ripianato
dai Comuni - risparmia il costo di una giornata
di perdite.
Le
rivendicazioni sindacali dei dipendenti pubblici dovrebbero essere invece
composte da una apposita Commissione di rappresentanti delle opposte parti,
mediante trattative che dovrebbero comunque escludere prove di forza quali quelle di dare spallate a danno della
collettività, attraverso scioperi od altre forme di disgregazione dell’ordine
costituito, che nella fattispecie costituiscono atti di sopraffazione,
ingiustamente scaricati sull’utenza.
I Carabinieri
– per esempio - già ricorrono a questa
impostazione: non si è mai infatti sentito parlare di uno sciopero dell’Arma,
mentre è notoria la diffusa aspirazione dei giovani ad entrare a farne parte,
in una categoria cioè dove il divieto di sciopero non è sentito come una
insopportabile limitazione delle libertà
costituzionali.
Si tratta a
ben vedere di un aspetto di estrema importanza per una democrazia compiuta,
anche se bisogna constatare che spesso non è così per il potere, meglio lo strapotere, dei sindacati,
non regolato da leggi, i quali non hanno remore ad indire illegittimi scioperi
di carattere politico,coinvolgenti larghe fasce di lavoratori, mai interpellati preventivamente.
I segretari
generali, proprio perché generali, dovrebbero astenersi dall’indire
scioperi
extra aziendali, di carattere generale o
peggio di carattere politico, :
- per il
metodo antidemocratico della prevaricazione sui lavoratori costretti a
sospendere il lavoro senza essere consultati;
- per i
gratuiti disagi che si procurano agli utenti;
- perché
devono essere – in base alla Costituzione – Governo e Parlamento, e non la piazza, a tracciare gli indirizzi
delle politiche nazionali.
Utopia?
L’utente
viene anche colpito senza riguardo, nei servizi pubblici, dalle assemblee sindacali tenute durante
l’orario di lavoro, legittimate dall’art.20 della già citata legge 300/1970, nel
corso delle quali si verifica, per citare un esempio, la intollerabile chiusura
al pubblico degli sportelli nelle banche e negli uffici postali. In questa
situazione, il servizio è completamente interrotto, mentre la legge assicura ai dipendenti la piena
retribuzione, fino ad un massimo di 10 ore annue. In siffatto modo si afferma
il principio che il cliente, che paga, viene, nella scala delle priorità, dopo
il dipendente che invece è pagato per la sua prestazione, in altri termini
mille clienti che hanno urgenza di un
servizio postale o bancario devono sottostare alla sovrana
discrezionalità di dieci addetti, manovrati dal sindacato, che organizzano rivendicazioni a spese dell’imprenditore
- ed a suo danno per la sospensione del servizio - imprenditore che rischia
così la competitività della sua azienda.
Perché mai
questi dipendenti non potrebbero riunirsi in albergo od in qualche sala
parrocchiale, fuori dell’orario di lavoro, anche se meno comodo?
La violazione
della libertà del cittadino, da parte di minoranze agguerrite, avviene in altri
casi tipici, quali:
-
le manifestazioni ed i cortei nei centri cittadini, con
grave disturbo alla libera circolazione stradale ed a danno di altri lavoratori
impegnati nella propria attività, cortei nei quali si innestano spesso atti di
teppismo da parte di infiltrati
organizzati ;
-
l’esempio del blocco nazionale dei trasporti su gomma,
quale quello attuato di recente per manifestare opposizione alle liberalizzazioni
del governo Monti. Blocco che ha provocato penuria nell’approvvigionamento dei
prodotti alimentari e, tra gli altri, la sospensione delle attività produttive per
mancanza di rifornimenti, ivi compresa la chiusura, annunciata dalla FIAT, per i propri stabilimenti in tutta
Italia, con grande rilievo sui media.
-
L’esempio della ostinata opposizione dei cosiddetti
No-Tav al tronco italiano della linea
ferroviaria europea Lisbona-Kiev, opera deliberata
da organi democraticamente eletti, opposizione esercitata non solo con
dibattiti ma anche con blocchi autostradali e danneggiamento del cantiere, per
impedire l’avvio dei lavori del traforo
alpino;
-
Gli scioperi di protesta dei trasposti pubblici indetti
dai sindacati nazionali contro particolari provvedimenti del governo, scioperi
del tutto illegittimi sia sul piano di principio che per la loro inutilità,
mentre vengono provocati danni a carico degli scioperanti stessi per la perdita
della retribuzione, ed a carico degli utenti chiamati a sopportare odiosi
disagi.
7 - Uno Statuto dell’ azienda al posto dello
Statuto dei lavoratori.
I tempi sono
maturi per il superamento della visione unilaterale dei rapporti di lavoro.
E’ innegabile
infatti che il lavoro non si genera che marginalmente con l’intervento dello Stato, né si genera con l’apporto delle
grandi industrie, che oggi paradossalmente sono la principale fonte di cassintegrati
e disoccupati.
E’ di facile
constatazione che il lavoro si genera
solo con le attività che diano un profitto, attività che devono essere
incoraggiate e non contrastate per motivi di classe o ideologici.
Sono le
aziende che producono ricchezza e nessun
altro. I lavoratori non potrebbero da soli fare altrettanto, senza i mezzi di
produzione. Lo stesso dicasi per il capitale senza l’apporto dei lavoratori.
Uno statuto
dell’azienda che contemperi i diritti dei lavoratori con quello del capitale,
volto a garantire la sopravvivenza di entrambi, che si garantisce solo se l’azienda genera profitto. Capitale
che oggi non è più caratterizzante di una classe, quella dei padroni, essendo
esso di provenienza la più varia: da quella dei fondi d’investimento a quella
dei fondi pensione di lavoratori, da quella dei piccoli azionisti a quella degli istituti finanziari. Potrebbe
essere, il capitale, anche di provenienza dai lavoratori dell’azienda stessa,
che vi potrebbero impiegare i propri TFR. Questo per dire che non è più il
tempo di vedere le rivendicazioni salariali come scontri di classe tra le varie
componenti dell’azienda, esse al
contrario devono essere serenamente discusse per ricercare quell’equilibrio tra
costi e ricavi che mantenga all’azienda il giusto profitto, unico garante della vitalità aziendale, in definitiva a
beneficio dell’occupazione dei dipendenti stessi.
Certo è che
le soluzioni proposte non risolvono al 100% i problemi dell’occupazione, ma ci
si può aspettare una riduzione della disoccupazione entro confini fisiologici
quali ad esempio sono il 5% del Giappone ed il 4,5 % dei Paesi Bassi e
dell’Austria.
Col nostro 9%
siamo comunque più vicini alla Germania del 7% che alla Spagna col 24 %. Quanto
basta per affermare con un po’ di ottimismo che se troviamo le larghe intese
auspicate dal Presidente della Repubblica, scrollandoci di dosso un certo
torpore e qualche tabù, e dando il dovuto rilievo alla cose positive, senza
però dimenticare quelle negative (perché cambino segno), si può raggiungere
l’obiettivo non di eliminare ma di ridurre con gradualità a livelli fisiologici
la disoccupazione, in particolare quella dei giovani.
Ciò che può
essere fatto subito in modo sistematico e senza costi apprezzabili è
l’esercizio del controllo sulla burocrazia pubblica, centrale e locale.
Controllare,controllare, controllare è
un’invocazione che viene dalla base degli utenti e degli amministrati e perfino
dalla gerarchia stessa che chiede a sua
volta di essere controllata, per essere in grado di acquisire il necessario
coraggio al fine di superare, nei dipendenti, abitudini ed incrostazioni
formatesi in anni di attività non soggetta
a sistematico controllo.
rinopalm@gmail.com
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